Roberto Guido, Presidente dell'Italian Linux Society, è stato uno degli speaker del Campus Party, manifestazione internazionale volta a scrivere il "codice sorgente del futuro" di cui HTML.it è media Partner. Promotore del software libero e open source da 15 anni, sia in veste di volontario che come professionista, Guido è probabilmente la persona più adatta a spiegare in che direzione sta andando l'economia e lo sviluppo delle soluzioni libere e aperte nel nostro Paese e nel resto del Mondo. Per questo motivo riportiamo le sue risposte ad un'intervista che ci ha gentilmente concesso proprio in occasione del Campus Party.
Ma è proprio vero che si può fare a meno del software proprietario, o questo discorso è limitato solo ad alcuni campi?
In quasi tutti i casi si è vincolati al software proprietario per motivi di abitudine (vedasi l'eterno confronto tra Photoshop e Gimp) oppure perché legati ad uno specifico formato di files e documenti (esempio classico: Microsoft Office e LibreOffice).
Che del software proprietario si possa fare a meno è dimostrato dalla progressiva e crescente adozione da parte degli utenti, motivata (anche) dalla migrazione delle applicazioni più diffuse e popolari al cosiddetto "cloud": molti non gradiscono il fatto di dover continuamente pagare un canone annuo, o di dover subire passivamente cambiamenti di versione e dunque di interfaccia e funzionalità, e si stanno approcciando alle soluzioni open source, localmente installabili (sul proprio computer o sul proprio server), aggiornabili e personalizzabili a propria discrezione, e oltretutto pure piacevolmente gratuite.
In che modo è possibile creare modelli di business efficienti, pur sviluppando software open source (e distribuendolo gratuitamente)?
Una doverosa precisazione: basta fare un giro in un qualsiasi co-working, agenzia o piccola azienda per scoprire che buona parte degli operatori nostrani del settore IT lavora con Linux, Apache, MySQL, PHP, Python, Ruby, WordPress, Drupal, Prestashop e tantissimi altri strumenti liberamente accessibili, distribuibili e personalizzabili.
Quando si parla di "business legato all'open source" non si parla di una ipotesi astratta, né tantomeno di una nicchia marginale, ma di quella che già oggi è la realtà quotidiana di migliaia di professionisti che producono ricchezza e benessere nel nostro Paese.
Del resto, a me stupisce come attualmente si possa pretendere di fare business con software che non sia open source. Ovvero: accollandosi tutti i costi di ricerca e sviluppo (senza sfruttare e scalare la pletora di componenti open già esistenti, consolidati e riutilizzabili), o peggio ancora allocando fondi nella effimera spesa per licenze di soluzioni spesso tecnologicamente inferiori, e convincendo qualcuno a pagare per un prodotto che per sua natura, contrariamente a mele o sedie, è riproducibile all'infinito a costo zero.
Il mercato della musica (altro bene altrettanto riproducibile, le cui dinamiche commerciali sono state fortemente condizionate negli anni dal fenomeno della cosiddetta "pirateria") già da tempo ha preso atto dell'ineluttabile stato delle cose e molti artisti, anziché tentare di vendere un CD sullo scaffale di un negozio, distribuiscono le loro opere gratuitamente su Internet al
fine di promuovere le attività davvero profittevoli, come il merchandise, le performance live o le diverse forme di monetizzazione offerte dalle varie piattaforme di pubblicazione e streaming.
Quali misure dovrebbero adottare le aziende per facilitare la diffusione del software open source?
Basterebbe riconoscere, in modo consapevole e responsabile, che dal suddetto software open source molto spesso, e sempre più spesso, dipende il successo della propria attività professionale. Dunque il fatto di sostenerlo e supportarlo non è un atto di generosità e alterigia, ma un investimento diretto nei confronti degli strumenti di lavoro da cui viene tratto il proprio profitto.
In Italian Linux Society da qualche tempo abbiamo lanciato nei confronti dei professionisti l'appello "UnoPercento", un aperto invito a destinare una parte del proprio fatturato (idealmente, appunto, l'1%) a finanziare economicamente le piattaforme, i tools e le applicazioni open con cui quotidianamente si lavora, si produce e si guadagna.
Qual è la situazione sull'uso del software open source in Italia? Ci sono fattori specifici che ne ostacolano la diffusione?
Il grosso problema dell'Italia, ed in generale dell'Europa, è la mancanza di politiche economiche che sappiano valorizzare la realtà imprenditoriale locale, che essendo tipicamente piccola e frammentata gioverebbe enormemente dall'approccio collaborativo proprio dell'open source. L'attività legislativa è in massima parte rivolta ad arginare l'invadenza dei ben noti colossi statunitensi anziché a premiare la ricerca e l'innovazione nel nostro Paese e nel nostro continente, col risultato che i nostri giovani talenti - moltissimi dei quali cresciuti professionalmente e culturalmente proprio grazie all'open source - preferiscono emigrare e produrre benessere altrove.
Competenze, creatività e passione non mancano. Men che meno manca l'interesse nei confronti delle tecnologie libere, che puntualmente trovo in ogni scuola ed ogni università in cui mi trovo a passare. Manca semmai l'opportunità di far diventare questo interesse un vero e proprio mestiere.
Quali attività vengono portate avanti dall'Italian Linux Society per facilitare la promozione del software open source?
Italian Linux Society è nata più di vent'anni fa con l'intento di sostenere i Linux Users Groups disseminati in tutto il Paese, e buona parte delle risorse sono a tutt'ora destinate a sviluppare e mantenere presidi culturali sul territorio che facciano informazione ed assistenza.
Tra queste attività la più nota è forse il Linux Day, la principale manifestazione italiana dedicata al software libero ed alle libertà digitali, resa possibile proprio grazie all'impegno dei tanti gruppi operativi cittadini: la prossima edizione si svolgerà sabato 27 ottobre, e siete ovviamente tutti invitati a partecipare!